CAPITOLO 4
Ove si dice, in maniera generale, come l’anima, per quanto dipende da essa, debba starsene al
buio per essere ben guidata dalla fede sino ai vertici della contemplazione.
1. Credo, ormai, di aver fatto capire un po’ come la fede sia notte oscura per l’anima e, altresì, come
questa debba rimanere all’oscuro della sua luce naturale per lasciarsi guidare dalla fede alla sublime
meta dell’unione divina. Ma perché l’anima possa riuscire in questo, occorre adesso spiegare più
dettagliatamente questa oscurità da cui essa deve lasciarsi avvolgere per accedere a questo abisso di
fede. Per tale motivo, nel presente capitolo, parlerò in generale di detta virtù e più avanti, a Dio
piacendo, indicherò più in particolare il modo da seguire per non smarrirsi in essa né ostacolarne la
guida.
2. Affermo, quindi, che per farsi guidare in modo sicuro dalla fede verso questo stato di
contemplazione l’anima non solo deve restare al buio nella sua parte sensitiva e inferiore,
riguardante le cose create e quelle temporali, di cui ho già trattato, ma deve farsi cieca e porsi al
buio anche nella sua parte razionale e superiore, quella riguardante Dio e le cose dello spirito, di cui
ora parlerò. Per giungere alla trasformazione soprannaturale, è chiaro che l’anima debba mettersi al
buio e trascendere tutto ciò che concerne la sua natura, tanto sensitiva che razionale.
Soprannaturale, infatti, vuol significare proprio ciò che è sopra il naturale; di conseguenza, ciò che è
naturale resta al di sotto. Ora, poiché la trasformazione e l’unione non dipendono né dai sensi né
dall’abilità umana, l’anima deve, per quanto le è possibile, svuotarsi completamente e
volontariamente di tutto ciò che dipende da lei, sia nella parte superiore che inferiore, cioè secondo
l’affetto e la volontà. E allora chi potrà mai proibire a Dio di fare ciò che vuole in quest’anima
docile, spogliata di tutto e nuda? Essa, però, deve svuotarsi di tutto ciò che può dipendere dalla sua
abilità, in modo che, sebbene riceva molti doni soprannaturali, ne rimanga sempre distaccata e come
ignara nei loro confronti, al pari di un cieco, aggrappandosi alla fede oscura, prendendola per guida
e luce, senza appoggiarsi a cose che comprende, gusta, sente e immagina. Tutto questo, infatti, è
tenebra che la fa sbagliare, mentre la fede è al di sopra di questo comprendere, gustare, sentire e
immaginare. Se l’anima, dunque, non si fa cieca riguardo a tali cose, rimanendo completamente al
buio, non arriverà mai a ciò che è superiore, cioè a quello che insegna la fede.
3. Chi non è cieco del tutto, non si lascia condurre volentieri dalla sua guida, ma, per quel poco che
vede, ritiene sia meglio seguire la strada che intravede appena, perché non ne scorge altre migliori;
in tal modo potrebbe far sbagliare anche la sua guida che vede meglio di lui, perché, in fondo,comanda più lui che il suo accompagnatore. Così pure accade all’anima. Se si avvale di qualche sua conoscenza, di qualche suo gusto o sentimento di Dio, per quanto ottime mediazioni, sono sempre
poca cosa e impari all’Essere divino; si sbaglia facilmente nel seguire tale cammino o si arresta,
perché non vuole affidarsi, completamente cieca, alla fede che è la sua vera guida.
4. La sacra Scrittura ci vuole dire proprio questo quando afferma: Accedentem ad Deum oportet
credere quod est, cioè: Chi si accosta a Dio deve credere che egli esiste (Eb 11,6). In altri termini,
chi vuole arrivare all’unione con Dio non deve appoggiarsi sulla propria conoscenza umana, né
attaccarsi ai gusti, ai sensi, all’immaginazione, ma credere che Dio esiste, verità questa che non può
essere afferrata né dall’intelletto né dagli appetiti né dall’immaginazione né da qualunque altra
sensazione. Dio non può essere conosciuto, in questa vita, così com’è. Anzi, in questa vita il
massimo che si possa percepire e gustare, ecc., di Dio, è infinitamente distante dalla sua realtà e dal
suo puro possesso. Isaia e san Paolo dicono: Nec oculus vidit, nec auris audivit, neque in cor
hominis ascendit, quae preparavit Deus iis qui diligunt illum: Quelle cose che occhio non vide né
orecchio udì né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano
(1Cor 2,9; cfr. Is 64,3). Come può l’anima pretendere di unirsi per grazia perfettamente in questa
vita a Colui con il quale sarà unita per gloria nell’altra, realtà, questa, che, come dice san Paolo,
occhio non vide né orecchio udì né entrò in cuore di uomo? È chiaro che per giungere in questa vita
a unirsi a Dio per mezzo della grazia e di un amore perfetto, l’anima dev’essere all’oscuro di tutto
quanto può passare attraverso l’occhio, di tutto ciò che può ricevere tramite l’orecchio e può essere
immaginato con la fantasia e compreso con il cuore, che in questo caso significa l’anima. Colui che
è in cammino verso questo stato eccelso di unione con Dio, si crea gravi ostacoli ogni volta che si
attacca a qualche suo pensiero, sensazione o immaginazione, al suo parere o alla sua volontà, al suo
modo di agire o a qualsiasi altra cosa od opera propria, non riuscendo a distaccarsene e a privarsene
del tutto. Come ho già detto, la meta a cui tende sorpassa tutte queste mediazioni, quantunque esse
siano il meglio di quanto si possa sapere o gustare: rinunciando a tali mediazioni, egli deve cercare
di non sapere nulla.
5. Pertanto, in questo cammino di unione, iniziare a camminare significa lasciare la propria via o,
meglio, passare oltre; lasciare il proprio modo di agire significa entrare in ciò che non ha un modo,
cioè in Dio. Difatti l’anima che perviene a tale unione non ha più modi o maniere personali, né tanto
meno si attacca o può attaccarsi ad essi; intendo dire modi di capire, di gustare, di sentire. Pur
possedendoli tutti in sé, agisce come chi non ha nulla e possiede tutto. Avendo avuto il coraggio di
oltrepassare, interiormente ed esteriormente, i limiti della propria natura, entra nei confini del
soprannaturale che non ha alcun modo, poiché nella sostanza li racchiude tutti. Ne segue che, per
giungere a questo stato, occorre uscire dalla propria condizione e, in ogni caso, allontanarsi molto
da se stessi, da tanta bassezza per tendere verso l’assoluta altezza.
6. Andando oltre tutto ciò che può conoscere o intendere, sia spiritualmente che naturalmente,
l’anima deve desiderare con tutte le sue forze di giungere a ciò che in questa vita non può conoscere
né può gustare nel suo cuore. Lasciando, inoltre, dietro di sé tutto ciò che gusta, sente e può gustare
e sentire in questa vita attraverso i sensi e lo spirito, deve desiderare con tutte le forze di
raggiungere ciò che sorpassa ogni sentimento e ogni gusto. Per restare libera e vuota in vista di tale
scopo, l’anima non deve assolutamente contare su ciò che può accogliere nella sua parte spirituale o
sensitiva, come dirò presto quando spiegherò questo punto in particolare. Infatti, quanto più pensa a
ciò che essa comprende, gusta e immagina, quanto più dà valore a tutto ciò, spirituale o meno, tanto
minore stima pone nel Bene supremo e stenta a raggiungerlo. Al contrario, meno valore dà a ciò che
può avere, per quanto possa essere considerevole, rispetto al sommo Bene, tanto più esalta e stima
quest’ultimo e, di conseguenza, tanto più si avvicina ad esso. In questo modo, al buio, l’anima si
avvicina a grandi passi all’unione divina per mezzo della fede. Pur essendo oscura anche
quest’ultima, tuttavia le offre una luce meravigliosa. Se, però, l’anima volesse vedere Dio,rimarrebbe abbagliata davanti a lui molto più in fretta di chi spalanca gli occhi per vedere lo
splendore del sole.
7. In questo cammino, quindi, l’anima vedrà la luce solo se accecherà le sue potenze, come il
Signore afferma nel vangelo: In iudicium veni in hunc mundum: ut qui non vident, videant, et qui
vident, caeci fiant, cioè: Sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono
vedano e quelli che vedono diventino ciechi (Gv 9,39). Sono parole, queste, che, così come
suonano, devono essere applicate al cammino spirituale. Insomma, occorre sapere che se l’anima si
terrà nelle tenebre e farà a meno di tutte le luci proprie e naturali, vedrà in un modo soprannaturale;
mentre quella che vorrà appoggiarsi su qualche luce personale, diventerà sempre più cieca e si
attarderà nel cammino dell’unione.
8. Per procedere meno confusamente mi sembra necessario spiegare nel capitolo seguente che cosa
sia quella che chiamiamo unione dell’anima con Dio. Una volta compresa questa, infatti, si farà
molta luce su ciò che dirò in seguito. Credo, quindi, sia arrivato il momento di trattarne qui. Tale
digressione non sarà inutile, perché, anche se si dovrà interrompere il filo del discorso, mediante
ciò, a questo punto, farò luce proprio su questo argomento. Il capitolo che segue sarà, dunque, come
una parentesi, posta dentro uno stesso sillogismo retorico, perché subito dopo parlerò, in particolare,
delle tre potenze dell’anima e delle rispettive virtù teologali nell’ambito di questa seconda notte.