CAPITOLO 5
 

Ove si spiega con un paragone in che cosa consiste l’unione dell’anima con Dio.
 

1. Da quanto è stato detto si può in qualche modo arguire che cosa s’intende qui per unione

dell’anima con Dio; è possibile, così, comprendere meglio ciò che ora esporrò. Non è mia

intenzione trattare delle sue distinzioni né delle sue parti, perché non finirei più se mi mettessi a

spiegare che cosa sia l’unione dell’intelletto, quella della volontà o quella della memoria, o ancora

che cosa sia l’unione transeunte o quella permanente di suddette facoltà o di tutte e tre prese

insieme. Ne parlerò nel corso della trattazione, quando si presenterà l’occasione, perché ora non

aiuterebbe a capire ciò che occorre dire di esse, mentre lo capiremo molto meglio a suo luogo,

allorché, trattando questo argomento, avremo sotto mano l’esempio vivo insieme alla presente

teoria; allora si potrà esaminare e comprendere meglio ogni cosa e se ne potrà meglio giudicare.
 

2. Ora voglio solo parlare dell’unione totale e permanente dell’anima, secondo la sua sostanza e le

sue potenze, immerse nell’oscurità abituale di tale unione. In seguito, con l’aiuto di Dio, dirò che

l’atto non può determinare un’unione permanente delle potenze in questa vita, ma solo transeunte.
 

3. Per comprendere, dunque, bene la natura dell’unione di cui sto parlando, occorre sapere che Dio

dimora ed è presente sostanzialmente in qualsiasi anima, anche in quella del peggior peccatore del

mondo. Questa sorta di unione tra Dio e tutte le creature sussiste sempre; per mezzo di essa, egli le

sostiene nella loro esistenza; se la sua presenza negli esseri creati venisse meno, essi cadrebbero nel

nulla e cesserebbero di esistere. Quando, perciò, parlo di unione dell’anima con Dio, non mi

riferisco a quella sostanziale, che vige sempre, ma all’unione e trasformazione dell’anima in Dio,

che si verifica solo quando viene a crearsi somiglianza d’amore. Questa, perciò, si può chiamare

unione di somiglianza, l’altra, invece, unione essenziale o sostanziale: questa è naturale, quella

soprannaturale e ha luogo quando le due volontà, quella dell’anima e quella di Dio, sono d’accordo

tra loro, senza che nulla dell’una ripugni all’altra. Quando, dunque, l’anima cancella in sé tutto ciò

che ripugna o non è conforme alla volontà divina, allora è trasformata in Dio per amore.

4. Tale spogliamento si riferisce non solo agli atti che ripugnano a Dio, ma anche alle abitudini.

Così l’anima deve respingere non solo gli atti volontari imperfetti, ma deve annullare qualsiasi

abitudine che ha relazione con essi. Poiché ogni cosa creata, azione e capacità umana non può

raggiungere né avvicinarsi a ciò che è Dio, l’anima deve spogliarsi di ogni cosa creata, azione e

capacità, cioè del suo modo di comprendere, di gustare e di sentire. Solo così, eliminato tutto ciò

che non somiglia o non è conforme a Dio, non restandole altro che la sua volontà, essa può

raggiungere la somiglianza con lui e la trasformazione in lui. Sebbene sia vero, come ho detto, che

Dio è sempre nell’anima per darle e conservarle l’essere naturale con la sua presenza, tuttavia non

sempre le comunica l’essere soprannaturale. Questo viene partecipato solo per amore e per grazia,

che non tutte le anime possiedono in ugual misura; alcune hanno un grado maggiore di amore, altre

un grado inferiore. Per questo, Dio si comunica maggiormente all’anima più avanti nell’amore, cioè

quella che ha la volontà più conforme alla sua volontà. L’anima, la cui volontà è pienamente

conforme e simile a quella di Dio, è completamente unita a lui e soprannaturalmente in lui

trasformata. Da quanto è stato detto risulta che, quanto più un’anima è sedotta, affettivamente e

abitualmente, dalle creature e dalle proprie capacità, tanto meno è disposta a tale unione, perché non

offre totalmente a Dio la possibilità di trasformarla soprannaturalmente. L’anima, quindi, non deve

fare altro che spogliarsi di quanto è opposto e dissimile, sul piano naturale, a Dio, perché questi, che

le si è già comunicato naturalmente per mezzo della natura, le si conceda soprannaturalmente per

grazia.
 

5. Questo è quanto ha voluto farci comprendere san Giovanni quando ha detto: Qui non ex

sanguinibus, neque ex voluntate carnis, nec ex voluntate viri, sed ex Deo nati sunt (Gv 1,13). È

come se volesse dire: ha dato potere di diventare figli di Dio, cioè di trasformarsi in lui, solo a

coloro che non sono nati dal sangue, cioè dall’unione e composizione di elementi naturali, e

neppure dalla volontà della carne, cioè dall’arbitrio dell’abilità e della capacità naturale, tanto

meno dalla volontà dell’uomo. Simili espressioni alludono a tutti i modi umani di giudicare e di

comprendere con la ragione. A nessuno di costoro, dunque, ha dato potere di diventare figli di Dio,

ma solo a quelli che sono nati da lui, cioè a coloro che, morti a tutto ciò che è uomo vecchio e

rinati, quindi, nella grazia, si elevano al di sopra di se stessi sino al soprannaturale, ricevendo da

Dio tale rinascita e filiazione, superiore a tutto ciò che si possa immaginare. Per questo motivo,

altrove lo stesso san Giovanni afferma: Nisi quis renatus fuerit ex aqua, et Spiritu Sancto, non

potest videre regnum Dei, cioè: Se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno

di Dio (Gv 3,5), che è lo stato di perfezione. Rinascere nello Spirito Santo in questa vita significa

avere un’anima molto simile a Dio per purezza, senza avere in sé alcuna mescolanza

d’imperfezione. Solo così può realizzarsi una pura trasformazione dell’anima in Dio per

partecipazione d’unione, anche se ciò non avviene sul piano dell’essenza.
 

6. Per poter comprendere meglio questa verità, ricorro a un paragone. Un raggio di sole batte su una

vetrata; se questa ha delle macchie o è appannata, il sole non può illuminarla e trasformarla

totalmente nella sua luce, come accadrebbe, invece, se fosse nitida e senza tutte quelle macchie.

Anzi, tanto meno la illuminerà quanto meno sarà smacchiata e pulita, e, viceversa, quanto più sarà

tersa tanta maggior luce riceverà. Ciò si verifica non per colpa del raggio, ma della vetrata stessa.

Se, infatti, questa fosse completamente limpida e tersa, il raggio la trasformerebbe e la

illuminerebbe a tal punto da essere identificata con il raggio stesso e da riflettere la sua stessa luce.

In tal caso, però, pur essendo la vetrata identificata con il raggio, conserva sempre la sua natura

distinta da esso; potremmo, però, dire che essa è raggio o luce per partecipazione. L’anima è come

questa vetrata che è sempre investita dalla luce dell’essere divino, o meglio tale luce dimora sempre

in essa per natura, come ho detto.
 

7. Quando l’anima fa spazio, cioè elimina in sé ogni ombra e macchia di cosa creata, tenendo la

volontà perfettamente unita a quella di Dio – perché amare vuol dire cercare di spogliarsi e privarsiper Dio di tutto ciò che non è lui –, viene immediatamente illuminata e trasformata in Dio. Questi, allora, le comunica il suo essere soprannaturale, in modo che quella sembra Dio stesso e possiede

ciò che possiede Dio. L’unione che s’instaura, quando Dio concede all’anima tale grazia

soprannaturale, produce una trasformazione partecipativa tale che tutte le cose di Dio e l’anima

costituiscono una sola cosa. L’anima assomiglia più a Dio che a se stessa, addirittura è Dio per

partecipazione. È pur vero, però, che il suo essere, anche se trasformato, resta per natura distinto da

Dio come prima; proprio come la vetrata che, pur essendo illuminata dal raggio di sole, ne rimane

pur sempre distinta.
 

8. Da ciò risulta più chiaro che i mezzi a disposizione dell’anima per arrivare a tale unione, come si

diceva prima, non consistono nel capire, nel gustare, nel sentire, nell’immaginare Dio, né in

qualsiasi altra attività umana, ma nella purezza e nell’amore, cioè nello spogliamento e nella

rinuncia assoluta a tutto per amore di Dio. Ora, poiché non si può dare trasformazione perfetta se

non vi è perfetta purezza, l’illuminazione e l’unione dell’anima con Dio saranno più o meno intense

e proporzionate alla purezza dell’anima. Tale unione, ripeto, non sarà perfetta fintanto che l’anima

non sarà del tutto perfetta, pura e limpida.
 

9. Il paragone seguente ci aiuterà a capire quanto ho detto. Pensiamo a un’immagine ben rifinita, dai

numerosi e sublimi pregi e dai delicati e fini smalti, alcuni dei quali si possono appena distinguere

per la loro delicatezza e perfezione. Ora, chi ha una vista poco chiara e imperfetta riuscirà a

scorgere solo qualcosa dell’arte e della finezza di quell’immagine; chi, invece, ha una vista migliore

vi scoprirà maggiori perfezioni; chi, infine, ha una vista molto acuta vi vedrà bellezze e perfezioni

più degli altri. Nell’immagine, infatti, vi è tanto da vedere che, malgrado tutto quello che si è potuto

ammirare, più si ammira, più resta da ammirare.
 

10. Possiamo dire che le anime si comportano con Dio allo stesso modo, quando vengono da lui

illuminate e trasformate. Se è vero che ogni anima, a seconda della sua poca o molta capacità, può

giungere a quest’unione, non tutte però vi pervengono con lo stesso grado d’intensità, perché ciò

dipende dalla volontà del Signore. Accade loro come ai santi in cielo: alcuni contemplano più e altri

meno, ma tutti vedono Dio e sono contenti, perché tutta la loro capacità ricettiva è appagata.
 

11. Da ciò risulta altresì che, quantunque in questa vita vi siano anime che nello stato di perfezione

godono uguale pace e tranquillità e ognuna di esse è soddisfatta, tuttavia alcune possono essere

molto più elevate di altre, ma tutte sono totalmente contente, in quanto tutta la loro capacità è

soddisfatta. Ma l’anima che non raggiunge una purezza proporzionata alle sue capacità, non

conseguirà mai la vera pace e soddisfazione, perché non ha operato quello spogliamento e quel

vuoto nelle sue potenze, necessari per l’unione semplice con Dio.