CAPITOLO 7
Ove si mostra quanto sia angusto il sentiero che porta alla vita eterna e quanto spogli e liberi
debbano essere coloro che vogliono percorrerlo. S’incomincia a parlare della notte dell’intelletto.
1. Per trattare ora in modo adeguato dello spogliamento e della purezza delle tre potenze dell’anima
sarebbero necessarie una mente e una scienza superiore a quelle che possiedo io, così da far capire
alle persone spirituali quanto stretto sia questo cammino che, secondo le parole del Signore,
conduce alla vita. Una volta persuase di questa verità, esse non si meraviglieranno del vuoto e della
nudità in cui devono lasciare le potenze dell’anima durante questa notte.
2. A tale proposito è opportuno considerare le parole del Signore riportate in san Matteo circa
questo cammino: Quam angusta porta, et arcta via est, quae ducit ad vitam, et pauci sunt qui
inveniunt eam, cioè: Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita e quanto pochi
sono quelli che la trovano! (Mt 7,14). Occorre notare che all’autorità di queste parole si aggiunge
l’efficacia intensiva contenuta nella particella quam. È come se il Signore volesse dire: è davvero
molto stretta, più di quanto pensiate! Va inoltre osservato come egli in primo luogo affermi che
stretta è la porta, il che permette di capire che per entrare in questa porta di Cristo, che è l’inizio del
cammino, l’anima deve anzitutto mortificare e spogliare la sua volontà di tutte le cose sensibili e
temporali, amando Dio al di sopra di tutto. Questo lavoro si compie nella notte dei sensi, di cui si è
già parlato.
3. Subito dopo aggiunge che angusta è la via, cioè quella della perfezione. Con tale espressione
vuol far capire che per avanzare nel cammino della perfezione l’anima non solo deve passare
attraverso la porta stretta, privandosi dei beni sensibili, ma deve altresì mortificarsi, espropriarsi e
sbarazzarsi completamente dei beni spirituali. Ciò che dice della porta stretta va, quindi, riferito alla
parte sensitiva della persona, e a quella spirituale o razionale ciò che dice della via angusta. La
causa, poi, dell’espressione: Pochi sono quelli che la trovano, va ricercata nel fatto che pochi sanno
e vogliono entrare in questa estrema nudità e vuoto dello spirito. Poiché questo sentiero verso il
sublime «Monte della perfezione» sale verso l’alto ed è angusto, può essere percorso soltanto da
viandanti che non portano pesi aggravanti la parte inferiore, cioè i sensi, né impedimenti che
ingombrano quella superiore, cioè lo spirito. Poiché si tratta di un impegno in cui si cerca e si
raggiunge solo Dio, Dio solo va cercato e posseduto.
4. Da ciò risulta chiaro che l’anima deve sbarazzarsi non solo di ogni affezione verso le cose create,
ma deve altresì essere libera e distaccata dai beni riguardanti il suo spirito. Per istruirci e guidarci in
questo cammino il Signore, nel vangelo di san Marco, c’insegna quella mirabile dottrina che è tanto
meno praticata dalle persone spirituali quanto più è loro necessaria. Per questo motivo e poiché fa al
nostro caso, la riporto tutta, spiegandone il genuino e spirituale significato. Il Signore afferma,
dunque, così: Si quis vult me sequi, deneget semetipsum, et tollat crucem suam, et sequatur me. Qui
enim voluerit animam suam salvam facere, perdet eam: qui autem perdiderit animam suam propter
me… salvam faciet eam, cioè: Se qualcuno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la
sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la
propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà (Mc 8,34-35).
5. Oh!, chi potrà far comprendere, praticare e gustare tutta l’importanza di questo consiglio del
nostro Salvatore? Egli chiede di rinnegare se stessi, affinché le persone spirituali vedano quanto il
modo di comportarsi in tale cammino sia diverso da quello che molte di loro immaginano. Alcune,
infatti, pensano che basti una qualsiasi forma di ritiro o di riforma della vita; altre si limitano a
esercitarsi in qualche modo nella virtù, nella pratica dell’orazione e della mortificazione, ma senza
arrivare allo spogliamento e alla povertà, all’abnegazione e alla purezza spirituale – che sono un
tutt’uno – consigliatici qui dal Signore. Si preoccupano, infatti, più di nutrire e ricoprire la loro
natura di consolazioni e sentimenti spirituali che di spogliarla e privarla di ogni conforto per amore
di Dio. Pensano che basti mortificarla nei piaceri del mondo e non che debba essere annientata e
purificata anche nella sua parte spirituale. Avviene dunque che, quando si presenta loro
l’opportunità di compiere un atto di virtù solido e perfetto, come l’annullamento di ogni soavità in
Dio, la permanenza nell’aridità, nelle avversioni, nelle sofferenze – cose in cui consiste la pura
croce spirituale, la nudità e la povertà di spirito del Cristo –, tali persone rifuggono tutto questo
come se fosse la morte e vanno solo in cerca di dolcezze e soavità nei rapporti con Dio. Ma questo
non è rinnegare se stessi né nudità di spirito, bensì golosità spirituale! Agendo così, esse si rendono
nemiche della croce di Cristo (Fil 3,18), perché il vero spirito cerca nel Signore più l’amaro che il
dolce, propende più per la sofferenza che per la consolazione, più per la mancanza di ogni bene per
amore di Dio che per il possesso, più per le aridità e le afflizioni che per le dolci comunicazioni,
sapendo che questo significa seguire Cristo e rinnegare se stessi; il resto, invece, è cercare se stessi
in Dio, cosa molto contraria all’amore. Infatti, cercare se stessi in Dio significa ricercare i doni e le
consolazioni di Dio, mentre cercare unicamente Dio non è solo voler rinunciare a tutto per amore di
Dio, ma essere propensi a scegliere per Cristo quanto di più disgustoso vi possa essere, sia da parte
di Dio che del mondo. Questo è amore di Dio.
6. Chi potrà far comprendere fin dove il Signore vuole che arrivi questa rinuncia? Essa dev’essere,
certamente, come una morte e un totale annientamento temporale, naturale e spirituale in relazione
alla volontà, nella quale si opera ogni rinuncia. Ciò è quanto intende dirci il Signore quando
afferma: Chi ama la sua vita la perde (Gv 12,25), cioè: chi vorrà possedere qualcosa o ricercarla e
tenerla gelosamente per sé, la perderà. Ma chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà
(Mt 10,39, cioè: chi per amore di Cristo rinuncia a tutto ciò che può desiderare e gustare, scegliendo
ciò che più assomiglia alla croce – il Signore stesso nel vangelo di san Giovanni chiama
quest’atteggiamento odiare la propria vita (Gv 12,25) –, costui la guadagnerà. Tale è
l’insegnamento che il Signore offrì a quei due discepoli che gli chiedevano di sedere alla sua destra
e alla sua sinistra. Egli non diede loro alcuna speranza di raggiungere la gloria richiesta, ma offrì il
calice, che egli stesso avrebbe bevuto, come la cosa più preziosa e più sicura su questa terra,
piuttosto che il godimento (Mt 20,20-22).
7. Bere questo calice significa morire alla propria natura, spogliandola e mortificandola in tutto ciò
che riguarda i sensi, come ho detto, e in tutto ciò che riguarda lo spirito, come ora dirò, cioè nel suo
modo d’intendere, di gustare e di sentire, perché la persona possa camminare per lo stretto sentiero.Così non solo sarà liberata da ciò che viene dai sensi e dallo spirito, ma, in ciò che riguarda
quest’ultimo, essa non inciamperà in nessun ostacolo lungo l’angusto cammino. Qui, infatti, c’è
posto solo per l’abnegazione – come lascia intendere il Signore – e per la croce, il bastone cui
appoggiarsi, che rende il cammino più facile e agevole. Per questo il Signore afferma nel vangelo di
san Matteo: Il mio giogo è dolce e il mio carico leggero (Mt 11,30). Il giogo è la croce che l’uomo
deve impegnarsi a portare, il che significa decidersi davvero a voler cercare e sopportare ogni sorta
di fatiche per amore di Dio. Solo così troverà in esse grande sollievo e dolcezza nel percorrere
questo cammino, privo di tutto, senza volere nulla. Se, invece, pretende di appropriarsi di qualcosa,
proveniente da Dio o da altrove, non procede spoglio e distaccato da tutto e, pertanto, non potrà
imboccare né percorrere questo stretto sentiero sino alla vetta.
8. Per questo motivo vorrei convincere le persone spirituali circa il fatto che questo cammino che
porta a Dio non consiste nella molteplicità delle meditazioni, nei metodi, negli esercizi, nei gusti –
sebbene tutto questo sia in qualche modo necessario ai principianti –, ma in una sola cosa
indispensabile: nel saper rinnegare davvero se stessi, esteriormente e interiormente, offrendosi alla
sofferenza per amore di Cristo e annientandosi in tutto. Esercitandosi in tali cose, si possono
acquisire tutti quei beni e di più grandi; se, invece, si trascurano, siccome esse sono compendio e
radice delle virtù, ogni altra pia pratica è dispersione inutile, anche se quelle persone abbiano
meditazioni e comunicazioni pari a quelle degli angeli. In realtà, si fa progresso solo imitando
Cristo, che è la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me, come dice
egli stesso nel vangelo di Giovanni (Gv 14,6). E altrove: Io sono la porta: se uno entra attraverso
di me, sarà salvo (Gv 10,9). Di conseguenza, non riterrei per buono quello spirito che volesse
camminare attraverso dolesse e agiatezze, e rifiutasse d’imitare Cristo.
9. Ho detto che Cristo è la via, e questa via è la morte alla nostra natura sia sensitiva che spirituale.
Ora voglio far comprendere come questo avvenga in noi, a imitazione di Cristo nostro modello e
nostra luce.
10. In primo luogo è certo che egli morì ai sensi, in modo spirituale, durante la sua vita, e
fisicamente, alla fine della sua vita, poiché, come egli stesso afferma, in vita non aveva dove posare
il capo (Mt 8,20) né tanto meno lo ebbe in croce.
11. In secondo luogo è certo che Cristo al momento della morte fu annientato anche nell’anima,
quando fu lasciato senza conforto e sollievo alcuno, abbandonato dal Padre nella più profonda
aridità affettiva. Allora egli sentì il bisogno di gridare: Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato? (Mt 27,46). Questo fu l’abbandono più desolante, a livello affettivo, da lui provato
durante la sua vita. In esso, però, compì l’opera più grande di tutta la sua vita, quella che sorpassa i
miracoli e ogni altro evento compiuto sulla terra e in cielo, cioè la riconciliazione del genere umano
la sua unione con Dio per mezzo della grazia. Come dico, tutto questo accadde nel tempo e nel
momento in cui nostro Signore toccò il massimo dell’annientamento: nella stima degli uomini, che
vedendolo morire, anziché apprezzarlo, si burlavano di lui; nella natura, per mezzo della quale si
annientò morendo; nel sostegno e nel conforto spirituale del Padre, che in quella circostanza lo
abbandonò, affinché pagasse interamente il debito e unisse l’uomo a Dio, lasciandolo annientato e
ridotto quasi a nulla. Davide dice di lui: Ad nihilum redactus sum, et nescivi: Ero ridotto un niente e
non capivo (Sal 72,22). Comprenda, perciò, l’uomo spirituale il mistero della porta e della via di
Cristo per unirsi a Dio e sappia che quanto più per amor suo si annienterà, nelle sue parti sensitiva e
spirituale, tanto più si unirà a Dio e più grande sarà la sua opera. Quando si sarà ridotto al nulla,
avrà cioè raggiunto l’estrema umiltà, allora realizzerà la sua unione spirituale con Dio, che è lo stato
più grande ed elevato al quale si possa pervenire in questa vita. Tale unione non consiste, quindi,
nelle gioie, nelle consolazioni o nei sentimenti spirituali, ma in una vera morte di croce, sensitiva e
spirituale, cioè esteriore e interiore.
12. Non voglio dilungarmi oltre su questo argomento, anche se non smetterei mai di parlarne,
perché vedo che Cristo è assi poco conosciuto da coloro che si considerano amici suoi. Li vediamo,
infatti, cercare in lui dolcezze e consolazioni e amare molto se stessi, piuttosto che cercare le sue
amarezze e la sua morte, segno di coloro che lo amano molto. Parlo di quelli che si ritengono suoi
amici, non degli altri che vivono lontano e separati da lui, grandi letterati, potenti e tutti gli altri che
vivono là nel mondo, preoccupati di soddisfare le loro ambizioni e le loro manie di grandezza,
perché di costoro posso dire che non conoscono Cristo e che avranno una fine, per quanto buona,
molto amara. Non parlo di loro in questo scritto. Di essi si parlerà nel giorno del giudizio, perché
costoro soprattutto avevano il dovere di annunciare la parola di Dio, essendo stati da lui posti in alto
dinanzi agli uomini per cultura e dignità.
13. Ora, però, parlo all’intelligenza dell’uomo spirituale, soprattutto di colui al quale Dio ha fatto il
dono di elevarlo allo stato di contemplazione. Come ho già detto, ora parlo specialmente a queste
persone, dicendo come devono indirizzarsi a Dio nella fede, purificando il loro intelletto da ciò che
a lui è contrario e mortificandosi, per poter entrare in questo sentiero stretto della contemplazione
oscura.