CAPITOLO 8
 

Ove si dimostra, in maniera generale, che nessuna creatura né alcuna conoscenza accessibile

all’intelletto possono servire come mezzo immediato per l’unione con Dio.
 

1. Prima di parlare della fede, quale mezzo proprio e più adeguato per l’unione con Dio, è

opportuno provare che nessuna realtà creata o pensata può servire all’intelletto come mezzo

specifico per unirsi a Dio, e che tutto ciò che l’intelletto può raggiungere gli è più d’impedimento

che d’aiuto, qualora volesse appoggiarvisi. Ora, in questo capitolo, proverò questa verità in maniera

generale e poi in particolare, esaminando tutte le conoscenze che l’intelletto può formarsi con

l’aiuto dei sensi esterni e interni, nonché gli inconvenienti e i danni che può subire da tutte queste

informazioni esteriori e interiori, se vuole procedere senza l’aiuto della fede, che è l’unico mezzo

per l’unione divina.
 

2. Occorre però ricordare che, secondo un principio filosofico, tutti i mezzi devono essere

proporzionati al fine, cioè devono avere una qualche convenienza o somiglianza con esso, in modo

da poter raggiungere il fine al quale per loro tramite si tende. Per esempio, se uno vuole andare in

una città, deve necessariamente percorrere la strada, che è il mezzo che ad essa unisce e conduce.

Così pure, se si vuole appiccare il fuoco al legno, è necessario che il calore, suo mezzo specifico,

raggiunga quei determinati gradi che occorrono per rendere progressivamente il legno simile al

fuoco. Se, invece, si volesse accendere il legno con un mezzo diverso da quello proprio che è il

calore, per esempio con l’aria, o con l’acqua o con la terra, sarebbe impossibile unire il legno al

fuoco; come sarebbe ugualmente impossibile arrivare a una città se non si seguisse la strada che

porta ad essa. Così è per l’intelletto. Perché possa unirsi a Dio in questa vita, nei limiti del possibile,

esso deve necessariamente usare quel mezzo che lo unisce a lui e con lui ha una forte somiglianza.
 

3. A questo proposito, dobbiamo ricordare che fra tutte le creature superiori e inferiori non ce n’è

alcuna che sia mezzo adatto all’unione con Dio o che abbia somiglianza con lui. Difatti, come

dicono i teologi, sebbene sia vero che tutte le creature abbiano un certo rapporto con Dio e qualche

traccia del suo essere – chi più, chi meno, secondo la loro natura – tuttavia non v’è relazione alcuna

o somiglianza essenziale tra esse e Dio, a motivo dell’infinita distanza che intercorre tra il loro

essere e quello di Dio. È quindi impossibile che l’intelletto possa unirsi a Dio mediante le creature,sia celesti che terrene, perché non c’è una sufficiente somiglianza. Per tale motivo, parlando delle

creature celesti, Davide afferma: Fra gli dei nessuno è come te, Signore (Sal 85,8), chiamando dei

gli angeli e i santi. E altrove: O Dio, santa è la tua via; quale dio è grande come il nostro Dio? (Sal

76,14), come a dire: la via per arrivare a te, o Dio, è una via santa, cioè una via di pura fede; per cui,

quale dio sarà così grande? Cioè: quale angelo sarà così elevato nel suo essere o quale santo così

glorificato da poter essere una via proporzionata e sufficiente per venire a te? Sempre Davide,

parlando delle creature terrene e celesti insieme, afferma: Eccelso è il Signore e guarda verso

l’umile, ma al superbo volge lo sguardo da lontano (Sal 137,6). Come a dire: essendo eccelso nella

sua essenza, scorge che l’essere delle creature della terra è infimo a confronto con il suo; quanto alle

cose elevate o creature celesti, le vede e conosce molto distanti dal suo essere. Nessuna delle

creature, quindi, può servire all’intelletto come mezzo adeguato per raggiungere Dio.
 

4. Allo stesso modo, tutto ciò che l’immaginazione può rappresentare e l’intelletto apprendere e

capire in questa vita, non è né può essere mezzo immediato per arrivare all’unione con Dio. Dal

punto di vista naturale, l’intelletto può raggiungere solo ciò che è contenuto e si presenta sotto le

forme e le immagini delle cose che ci vengono attraverso i sensi corporali; ora queste cose, come ho

detto, non possono servire da mezzo per l’unione; di conseguenza non ci si può avvalere

dell’intelligenza naturale. Parlando, poi, dal punto di vista soprannaturale, per quanto è possibile in

questa vita, l’intelletto, secondo la sua potenzialità ordinaria, finché è nel carcere del corpo, non ha

né la disposizione né la capacità di avere una conoscenza chiara di Dio, perché tale conoscenza non

appartiene alla condizione naturale: o si deve morire o si deve farne a meno. Quando Mosè chiese a

Dio questa conoscenza, gli fu risposto che non era possibile: Nessun uomo può vedermi e restare

vivo (Es 33,20). E san Giovanni aggiunge: Nessuno ha mai visto Dio né qualcosa di simile a lui

(1Gv 4,12; Gv 1,18). Continuano in questa linea Isaia e san Paolo quando affermano: Quelle cose

che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo… (1Cor 2,9; cfr. Is 64,3).

Questo è il motivo per cui Mosè, come si racconta negli Atti degli Apostoli (7,32), non osò

guardare il roveto ardente, dov’era presente Dio. Sapeva, infatti, che il suo intelletto era incapace di

contemplare Dio, in maniera adeguata e conformemente a ciò che di lui ascoltava. Di Elia, nostro

padre, si dice che sul monte si coprì il volto alla presenza di Dio (1Re 19,13), cioè rese cieco il

proprio intelletto. Egli compì quel gesto, perché non osava posare la sua mano tanto vile su una

cosa così eccelsa, ben sapendo che qualsiasi cosa avesse meditato e compreso nei particolari,

sarebbe stata sempre molto lontana e diversa da Dio.
 

5. Pertanto nessuna conoscenza o percezione soprannaturale, in questa nostra condizione mortale,

può servire come mezzo immediato per la sublime unione d’amore con Dio. Tutto ciò che

l’intelletto può comprendere, la volontà gustare e l’immaginazione fabbricare è, ripeto, molto

diverso e sproporzionato rispetto a Dio. Ciò è quanto meravigliosamente riferisce Isaia con tutta la

sua autorevolezza: A chi potreste paragonare Dio e quale immagine mettergli a confronto? Il

fabbro fonde l’idolo, l’orafo lo riveste d’oro e l’argentiere lo copre con lamelle d’argento (Is

40,18-19). Per fabbro qui s’intende l’intelletto, che ha il compito di formare le conoscenze e

spogliarle del ferro delle specie e delle immagini. Per orafo qui s’intende la volontà, che ha la

capacità di ricevere la figura e la forma dei piaceri, causati dall’oro dell’amore. Per argentiere,

incapace – così viene qualificato – di rappresentare Dio con lamelle d’argento, s’intende la memoria

unitamente all’immaginazione. Difatti si può giustamente dire che le conoscenze e le fantasie, da

entrambe elaborate e forgiate, sono come lamelle d’argento. Tutto ciò sta a significare che né

l’intelletto con le sue conoscenze potrà comprendere cose simili a Dio, né la volontà gustare diletti e

dolcezze somiglianti a quelle di Dio, né la memoria riprodurre nella fantasia conoscenze e immagini

che lo rappresentino. È chiaro, quindi, che nessuna di queste conoscenze può immediatamente

indirizzare l’intelletto verso Dio. Per avvicinarsi a lui deve procedere piuttosto con la rinuncia che

con il desiderio di capire, tenersi nella cecità e nelle tenebre piuttosto che spalancare gli occhi e

fissare il raggio divino.

6. Per questo la contemplazione, che consente all’intelletto di raggiungere la più alta conoscenza di

Dio, è chiamata teologia mistica, che vuol dire segreta sapienza di Dio, perché è nascosta allo stesso

intelletto che la riceve. San Dionigi la chiama anche raggio di tenebra. Di essa il profeta Baruc ha

detto: Non hanno conosciuto la via della sapienza, non si sono ricordati dei suoi sentieri (Bar 3,23).

È chiaro, quindi, che l’intelletto deve rendersi cieco riguardo a tutti i sentieri che può intraprendere

per unirsi a Dio. Aristotele afferma che l’infinita luce di Dio è fitta tenebra per il nostro intelletto,

come il sole lo è per gli occhi del pipistrello. E aggiunge che quanto più le cose di Dio sono eccelse

e chiare in sé, tanto più sono ignorate e oscure per noi. Lo stesso afferma l’Apostolo quando scrive:

La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,19).
 

7. A questo punto non finirei mai di citare testi e addurre argomenti per provare diffusamente che

fra tutte le cose create e quelle che possono essere raggiunge con l’intelletto non esiste scala per la

quale questo possa arrivare alle altezze di Dio. Al contrario, occorre sapere che se l’intelletto vuole

servirsi di tutte le cose create, o di alcune di esse, come mezzo immediato per l’unione con Dio, vi

troverà non solo un impedimento per salire questo «Monte», ma gli saranno anche occasione di

gravi errori e inganni.