CAPITOLO 14
Ove si dimostra la convenienza di questi segni, spiegando quanto sia necessario per l’anima
saperli riconoscere al fine di progredire.
1. Circa il primo segno che ho presentato, occorre ricordare che la persona spirituale – per entrare
nella via dello spirito, cioè nella contemplazione – deve abbandonare la via delle immagini e della
meditazione sensibile quando non vi provi più gusto e non riesca più a discorrere. E questo per due
motivi, che si fondono in uno. Il primo è che l’anima ha già ricevuto, in certo modo, tutto il bene
spirituale che poteva trovare nelle cose di Dio attraverso la meditazione e il ragionamento. L’indizio
consiste nel fatto che non può più, come prima, né meditare né discorrere né trovare in tali esercizi
gusto o piacere, perché fino a quel momento non era ancora arrivata al bene spirituale ad essa
riservato in questo stato. Difatti, ordinariamente, tutte le volte che l’anima riceve qualche bene
spirituale, lo gusta, perlomeno spiritualmente, proprio in quel mezzo attraverso cui lo riceve e che le
è utile; altrimenti sarà un caso se ne trae giovamento o se nella causa di tale bene trova quel
sostegno e quel gusto che prova quando lo riceve. Avviene proprio come dicono i filosofi: Quod
sapit, nutrit: Ciò che dà sapore, nutre e ingrassa. A tale proposito Giobbe afferma: Numquid poterit
comedi insulsum, quod non est sale conditum?: Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? (Gb
6,6). Il motivo, dunque, per cui l’anima non può più meditare né discorrere come prima è questo: il
poco sapore e lo scarso profitto che lo spirito trova in tale esercizio.
2. Il secondo motivo sta nel fatto che a questo punto l’anima possiede lo spirito di meditazione
sostanzialmente e abitualmente. Occorre ricordare, infatti, che scopo della meditazione e del
discorrere nelle cose di Dio è quello di ottenere un po’ di conoscenza e di amore di Dio. Ogni volta
che l’anima, tramite la meditazione, ricava tale frutto, compie un atto. Come molti atti, in qualsiasi
altro campo, finiscono per generare nell’anima un’abitudine, così molti atti di queste conoscenze
piene d’amore, che l’anima ha di volta in volta emesso in particolare, con il loro ripetersi finiscono
per diventare in essa un abito. Dio è solito concedere tale abito a molte anime anche senza la
mediazione di tali atti, o almeno d’un buon numero di essi, collocandole subito nello stato di
contemplazione. Così, ciò che prima l’anima otteneva periodicamente meditando con fatica su
conoscenze particolari, ora, come ho detto, attraverso la ripetizione si è tramutato in abito e sostanzadi una conoscenza amorosa generale, non distinta né particolare come prima. Perciò, quando l’anima si mette a pregare, beve con piacere senza fatica alcuna, come chi ha l’acqua a portata di
mano, senza doverla far arrivare attraverso i faticosi mezzi precedenti, quali i ragionamenti, le
rappresentazioni e le figure. Così, appena si mette alla presenza di Dio, possiede una conoscenza di
Dio confusa, amorosa, piena di pace e di quiete, in cui beve i fiotti della sapienza, dell’amore e della
dolcezza.
3. Questo è il motivo per cui l’anima prova molta pena e disgusto quando si trova in questa quiete e
si vuole farla applicare faticosamente alla meditazione e a conoscenze particolari. Accade ad essa
come al bambino che viene strappato dal petto materno mentre, tutto raccolto, sta succhiando il
latte, per obbligarlo a spremere e comprimere con fatica la mammella onde procurarselo di nuovo.
Somiglia, altresì, a colui che ha già tolto la buccia e sta gustando la polpa, quando venisse costretto
a lasciare questa e a tornare di nuovo alla buccia che non c’è più: così non troverebbe più la buccia
e cesserebbe di gustare la polpa che aveva già tra le mani; in questo è simile a uno che lascia ciò che
ha per correre dietro a ciò che non ha.
4. Così agiscono molte di quelle anime che cominciano a entrare in questo stato. Pensano che tutta
la loro occupazione consista nel ragionare e comprendere cose particolari di Dio attraverso
immagini e forme, che sono la corteccia della vita spirituale. Poiché non trovano tali immagini e
forme nella quiete amorosa e sostanziale in cui desiderano restare, e non comprendono che cosa stia
accadendo, pensano di smarrirsi o di perdere tempo. Tornano a cercare la scorza delle loro
immagini e del loro ragionamento, ma non la trovano più perché è sparita; e così non gustano né il
frutto, che è la contemplazione, né la scorza, che è la meditazione. Allora esse si turbano, credendo
di tornare indietro e di perdersi. E in realtà si perdono, ma non come pensano loro, perché si
perdono ai loro sensi e al primitivo modo di comprendere le cose; ora tutto questo significa che
stanno raggiungendo il puro spirito, concesso loro a poco a poco. Quanto meno capiscono ciò che
sta accadendo, tanto più entrano nella notte dello spirito – di cui si parla in questo libro – che esse
devono attraversare per unirsi a Dio al di là di ogni conoscenza.
5. Per quanto riguarda il secondo segno c’è poco da dire, perché è chiaro che l’anima, a questo
punto, non prova assolutamente più gusto nelle immagini estranee, cioè mondane, dal momento che
essa non si diletta nemmeno più delle immagini relative alle cose di Dio per i motivi già detti. Ma,
ripeto, durante questo raccoglimento l’immaginazione è solita spaziare liberamente, senza che
l’anima si compiaccia o vi acconsenta; anzi ne è infastidita, perché ciò disturba la sua pace e il suo
diletto.
6. Credo non sia opportuno parlare ora della convenienza e necessità del terzo segno, cioè della
conoscenza o attenzione generale, piena d’amore, per Dio, al fine di abbandonare la meditazione,
perché è stato detto qualcosa trattando del primo segno. Se ne parlerà espressamente a suo luogo,
quando si esaminerà questa conoscenza generale e confusa, cioè dopo aver analizzato i modi
particolari di apprendere dell’intelletto. Qui mi limiterò ad addurre un solo motivo che permette di
vedere chiaramente come, al momento di lasciare la via della meditazione e del ragionamento, il
contemplativo abbia bisogno di questa conoscenza o attenzione piena di amore per Dio, in maniera
generale. Questo perché, se l’anima in quel momento non avesse questa conoscenza o sentimento
della presenza di Dio, resterebbe inoperosa e non avrebbe nulla. In realtà, dopo aver lasciato la
meditazione, che aiuta a discorrere attraverso le potenze sensitive, se all’anima viene a mancare
anche la contemplazione, cioè, ripeto, la conoscenza generale nella quale essa tiene impegnate le
potenze spirituali, la memoria, l’intelletto e la volontà, unite ormai in questa conoscenza già
prodotta in esse, detta anima rimarrebbe necessariamente priva di ogni esercizio nei confronti di
Dio. Essa, infatti, non può operare né ricevere ciò che viene compiuto se non per mezzo delle
potenze sensitive e spirituali. Mediante le prime, come ho detto, l’anima può discorrere, cercare edelaborare le conoscenze degli oggetti; mediante le seconde può godere delle conoscenze ricevute attraverso le potenze precedenti, senza che queste operino più.
7. La differenza, dunque, che esiste nell’uso che l’anima fa delle potenze nell’uno e nell’altro stato,
è la stessa che vige tra il lavorare a un’opera e il godere dell’opera fatta, oppure tra la fatica del
cammino e la riposante quiete al termine del cammino. È come la differenza che intercorre tra la
preparazione di un cibo e il mangiarlo o gustarlo già cotto e triturato, senza alcuna fatica; o ancora
tra il ricevere e l’approfittare di ciò che si è ricevuto. Ugualmente, se l’anima non fosse occupata
nell’operare con le potenze sensitive nella meditazione e nel ragionamento, o con l’aiuto delle
potenze spirituali nella contemplazione e nella conoscenza, di cui ho parlato, nella quale essa gode
di un bene ricevuto e acquisito; in breve, se essa non si serve di entrambe queste potenze, non
potremmo assolutamente dire né come né in che cosa sia occupata. È, quindi, indispensabile
all’anima avere questa conoscenza generale per poter lasciare la via della meditazione e del
ragionamento.
8. Ma a questo proposito si deve sapere che questa conoscenza generale di cui sto parlando, a volte
è molto sottile e delicata, soprattutto quando è più pura, semplice, perfetta, più spirituale e interiore,
tanto che l’anima, pur essendo occupata in essa, non riesce a vederla né a sentirla. Questo accade
quando tale conoscenza, ripeto, è in sé più limpida, perfetta e semplice. E lo è quando essa investe
un’anima più spoglia e distaccata da altre conoscenze e nozioni particolari alle quali l’intelletto e i
sensi potrebbero essere attaccati. Così, essendo l’anima priva di queste conoscenze particolari,
offerte dall’intelletto e dai sensi secondo la loro abituale capacità, non le sente più, perché le
mancano le forme sensibili. Questo è il motivo per cui, quanto più pura, perfetta e semplice è tale
conoscenza, tanto meno l’intelletto la comprende e tanto più la sente oscura. Al contrario, quanto
meno essa è in sé pura e semplice nell’intelletto, tanto più chiara e preziosa apparirà all’intelletto
stesso, essendo vestita o mescolata o avvolta in alcune forme sensibili su cui l’intelletto o i sensi
possono fermarsi.
9. Il seguente paragone ci permetterà di comprendere meglio questo pensiero: quando un raggio di
sole entra per la finestra, più esso è pieno di corpuscoli e di polvere, più appare visibile, percettibile
e chiaro al senso della vista. Ma naturalmente il raggio è meno puro e meno chiaro e in sé meno
semplice e perfetto, perché pieno di tanta polvere e corpuscoli estranei; quanto invece è più puro e
privo di quei corpuscoli e di pulviscolo, tanto meno sensibile e percettibile appare all’occhio
materiale; quanto più è puro, tanto più oscuro e inafferrabile appare. Se questo raggio fosse
completamente privo di particelle di polvere, anche delle più minuscole, sarebbe del tutto invisibile
e impercettibile all’occhio, perché privo di quegli elementi visibili che formano l’oggetto proprio
della vista. Quest’ultima, infatti, non troverebbe elementi su cui posarsi, perché la luce non è
l’oggetto proprio della vista, ma il mezzo con cui scorge ciò che è visibile. Così, mancando gli
elementi visibili sui quali il raggio o la luce possono riflettersi, non si vede nulla. Per cui, se il
raggio entrasse da una finestra e uscisse da un’altra senza imbattersi in nessun oggetto che faccia da
schermo, non si vedrebbe nulla. Eppure il raggio sarebbe in sé più puro e più limpido di quando,
carico di particelle visibili, si vede e si percepisce come più luminoso.
10. Lo stesso accade per la luce spirituale nei confronti della vista dell’anima, cioè l’intelletto.
Questa conoscenza generale, questa luce soprannaturale, di cui sto parlando, lo investe con tanta
limpidezza e semplicità ed è tanto spoglia e aliena da tutte le forme sensibili, le quali sono l’oggetto
proprio dell’intelletto, che questo non l’avverte e non la vede. Anzi, a volte, quanto tale conoscenza
è più pura, crea oscurità nell’intelletto, perché lo priva delle sue luci abituali, delle forme e dei
fantasmi, e allora esso si rende conto dell’oscurità in cui si trova. Ma quando l’anima non è investita
da questa luce divina con tanta forza, non scorge le tenebre, né vede la luce, né percepisce
avvertitamene conoscenza alcuna di quaggiù o di lassù. Così, a volte, essa viene a trovarsi come inun profondo oblio, non sapendo dove si trova, né cosa abbia fatto, né se sia passato del tempo. Può dunque accadere, e accade, che l’anima trascorra molte ore in questo oblio e, quando ritorna in sé,
le sembra che tale oblio sia durato un attimo e che non sia accaduto nulla.
11. La causa di tale oblio è da ricercarsi nella purezza e nella semplicità di questa conoscenza che,
occupando l’anima, la rende semplice, pura e distaccata da tutte le percezioni e le immagini dei
sensi e della memoria con cui essa operava nel tempo, lasciandola così nell’oblio e senza tempo.
Quest’orazione, sebbene duri molto, all’anima – ripeto – sembra brevissima, perché è stata unita a
Dio per mezzo della sua intelligenza pura, cioè libera da ogni mediazione, quindi fuori del tempo.
Tale è l’orazione breve, di cui si dice che penetra i cieli: breve perché non è nel tempo; penetra i
cieli perché l’anima è unita a Dio attraverso la sua intelligenza ormai celestiale. Perciò tale
conoscenza lascia nell’anima, quando questa ritorna in sé, gli effetti in essa prodotti, senza che se ne
accorga. Questi sono l’elevazione dello spirito all’intelligenza celestiale, il distacco e
l’allontanamento da tutte le cose, forme e figure e dal loro ricordo. Davide afferma che gli accadde
così quando tornò in sé da un oblio simile: Vigilavi, et factus sum sicut passer solitarius in tecto,
che vuol dire: Nel continuo vegliare sono diventato come un passero solitario sopra un tetto (Sal
101,8). Dice di essere solitario, cioè staccato ed estraniato da tutte le cose. Abita sopra un tetto,
perché il suo spirito è molto elevato. Così è l’anima, completamente ignorante delle cose della terra,
perché conosce solo Dio. Per questo la sposa del Cantico afferma che, tra gli effetti prodotti in lei da
questo suo sogno e oblio, c’era questo non sapere, quando, al momento in cui riceveva questa
grazia, esclamò: Nescivi, cioè non seppi (Ct 6,12) da dove mi veniva tale grazia. Sebbene all’anima
favorita di tale conoscenza sembri di non fare nulla né di essere occupata in cosa alcuna, perché non
agisce con i sensi e le potenze, tuttavia non creda che stia perdendo tempo. Difatti, anche se
l’armonia delle potenze dell’anima è sospesa, la sua intelligenza è nello stato di cui ho parlato
sopra. Per questo motivo la sposa, che era saggia, sempre nel Cantico risponde a se stessa su questo
dubbio, affermando: Ego dormio et cor meum vigilat (Ct 5,2), come a dire: sebbene io dorma,
secondo la mia natura, cessando di agire naturalmente, il mio cuore vigila, elevato
soprannaturalmente in una conoscenza soprannaturale.
12. Non si deve, però, credere che questa conoscenza, così come l’ho descritta, causi
necessariamente oblio. Tale fenomeno avviene solo quando Dio priva l’anima dell’esercizio di tutte
le sue potenze naturali e spirituali. Ciò accade rare volte, perché non sempre tale conoscenza occupa
l’anima interamente. Affinché essa produca l’effetto di cui sto parlando, basta che l’intelletto sia
libero da qualsiasi conoscenza particolare, nell’ordine temporale e spirituale, e che la volontà non
abbia alcun desiderio di pensare agli oggetti d’entrambi gli ordini, come ho detto, perché allora è
segno che l’anima è occupata. Questo, dunque, è l’indizio per sapere se l’anima si trova in tale
stato, cioè quando tale conoscenza si applica e si comunica solo all’intelletto. Ciò accade, a volte,
quando l’anima non se ne accorge. Quando, infatti, si comunica allo stesso tempo anche alla
volontà, cioè quasi sempre, l’anima non manca di comprendere, press’a poco, se vuole prestarvi
attenzione, di essere applicata e occupata in questa conoscenza. La riconosce perché sente di
provare una soavità piena di amore, senza però sapere e comprendere in particolare ciò che ama. Per
questo motivo definisce generale tale conoscenza piena d’amore, perché questa si comunica
all’intelletto in modo oscuro e nella volontà veicola soavità e amore in modo confuso, senza cioè
che questa sappia esattamente ciò che ama.
13. Per ora questo può bastare per far capire quanto convenga all’anima essere occupata in simile
conoscenza prima di abbandonare la via della meditazione discorsiva e per essere sicura, sebbene ad
essa sembri il contrario, che è ben occupata, dal momento che scorge in sé i suddetti segni. Dal
paragone sopra riportato, inoltre, credo che si capisca come l’anima non debba ritenere questa luce
più pura, elevata e chiara perché si presenta all’intelletto più comprensibile e percettibile. È simile
al raggio di sole che è più visibile all’occhio quando è pieno di impurità. È dunque evidente, comedice Aristotele e ripetono i teologi, che quanto più alta ed eccelsa è la luce divina, tanto più oscura essa è per il nostro intelletto.
14. C’è molto da dire su questa conoscenza divina, considerata in se stessa e negli effetti che
produce nei contemplativi. Rimando tutto al momento opportuno, perché anche su quello che ho
detto in questo capitolo non mi sarei dilungato tanto se non per il timore di lasciare questa dottrina
un po’ più confusa di quanto non sia ora. Di fatto lo è, e molto anche, lo ammetto, perché si tratta di
un argomento di cui si parla poco sia a voce che per iscritto, essendo di per sé straordinario e
oscuro. A tale difficoltà si aggiungono il mio povero modo di presentare tale dottrina e la mia poca
scienza. Per questo, dubitando di non saperla spiegare, mi accorgo che spesso mi dilungo troppo e
oltrepasso i limiti consentiti al luogo e alla dottrina in questione. Confesso, d’altronde, che a volte
lo faccio di proposito, perché ciò che non si riesce a far capire con alcune ragioni, forse riuscirà
comprensibile con altri argomenti e anche perché così si fa più luce su quanto si dirà più avanti. Per
concludere questa parte, credo quindi opportuno rispondere a un dubbio che può sorgere circa la
durata di questa conoscenza. È ciò che farò nel capitolo seguente.